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Cos'è il Disturbo post-traumatico da stress
Il Disturbo post-traumatico da stress si manifesta con una serie di sintomi di disagio innescati dall’esperienza di eventi traumatici stressanti, come la personale esposizione ad eventi dolorosi, a una malattia grave, al rischio di morire o ad altre serie minacce alla propria integrità fisica o a quella di familiari e amici stretti (catastrofi naturali, violenze personali, incidenti, lutti, ecc.).
Quali sono i sintomi?
I principali sintomi associati al Disturbo post-traumatico da stress possono essere raggruppati in tre specie:
- frequenti immagini e pensieri intrusivi, flashback o incubi ricorrenti che fanno rivivere l’evento traumatico;
- comportamenti persistenti di evitamento di circostanze associabili al trauma (ad esempio, luoghi, attività o persone che fanno ricordare l’evento traumatico);
- sintomi persistenti di sovra-eccitamento (ad esempio, irritabilità, preoccupazione, ansia, depressione, insonnia, difficoltà di concentrazione, ecc.).
A questi sintomi possono aggiungersi conseguenze anche sul piano fisico, come palpitazioni, inappetenza, disturbi del sonno, ecc. Tra le conseguenze, non è raro l’abuso di alcol e droghe come un modo per cercare di dimenticare l’evento traumatico. L’insieme di questi sintomi e conseguenze può produrre effetti negativi sulla vita quotidiana del soggetto affetto dal Disturbo post-traumatico da stress, sulla vita lavorativa e relazionale.
Quanto è diffuso?
Recenti studi hanno stimato una incidenza del Disturbo post-traumatico da stress tra il 5% e il 10% dell’intera popolazione. Tale percentuale risulta differente a seconda delle categorie di soggetti considerati, variando ad esempio dall’11% degli individui coinvolti in incidenti stradali, al 50% delle vittime di violenze sessuali, dei veterani di guerra, ecc. Circa il 20-40% di questi soggetti soffrirà del disturbo per più di un anno, il 15-20% per un periodo superiore ai due anni, circa la metà svilupperà una forma cronica del disturbo.
Trattamento
Il trattamento del Disturbo post-traumatico da stress è teso a risolvere i problemi psicologici e comportamentali elencati sopra. A volte, è indicato l’uso di farmaci associati alla psicoterapia. Tuttavia, i farmaci (in genere si tratta di antidepressivi) da soli non appaiono mai risolutivi, e procurano sono un sollievo temporaneo dai sintomi.
L’intervento cognitivo-comportamentale porta invece a una progressiva riduzione dell’ansia e degli altri sintomi correlati all’evento traumatico, e nello specifico prevede l’applicazione delle seguenti tecniche:
- l’esposizione in immagini, una tecnica basata sull’esposizione del soggetto al ricordo del trauma attraverso resoconti verbali e immaginativi;
- l’esposizione in vivo, ossia il confronto graduale e controllato con quelle situazioni ansiogene precedentemente evitate dal soggetto;
- la terapia cognitiva, che si concentra sulle credenze e assunzioni del soggetto circa se stesso, gli altri e il mondo, procedendo ad una ristrutturazione cognitiva dei pensieri distorti dopo aver effettuato un assessment specifico e accurato.
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Cos'è l'ipocondria.
La caratteristica principale dell’ipocondria, o ansia connessa allo stato di salute, è la credenza, basata su un’interpretazione erronea di segni o sintomi fisici, di stare sviluppando una grave malattia, senza che un’accurata valutazione medica abbia identificato motivi sufficienti per giustificare questi timori.Nella ipocondria la preoccupazione può riguardare le funzioni corporee (per es. il battito cardiaco, la traspirazione o la peristalsi); alterazioni fisiche di lieve entità (per es. una piccola ferita o un occasionale raffreddore); oppure sensazioni fisiche vaghe o ambigue (per es. “cuore affaticato”, “vene doloranti”).
La persona attribuisce questi sintomi o segni alla malattia sospettata ed è molto preoccupata per il loro significato e per la loro causa. Le preoccupazioni possono riguardare numerosi apparati, in momenti diversi o simultaneamente.
In alternativa ci può essere preoccupazione per un organo specifico o per una singola malattia (per es. la paura di avere una malattia cardiaca). Visite mediche ripetute (doctor shopping), esami diagnostici e rassicurazioni da parte dei medici servono poco ad alleviare la preoccupazione concernente la malattia o la sofferenza fisica. Per esempio, un soggetto preoccupato di avere una malattia cardiaca non si sentirà rassicurato dalla ripetuta negatività dei reperti delle visite mediche, dell’ECG, o persino della angiografia cardiaca.
I soggetti con l’ipocondria possono allarmarsi se leggono o sentono parlare di una malattia, se vengono a sapere che qualcuno si è ammalato, o a causa di osservazioni, sensazioni, o eventi che riguardano il loro corpo.
La preoccupazione riguardante le malattie temute spesso diviene per il soggetto un elemento centrale della immagine di sé, un argomento abituale di conversazione, e un modo di rispondere agli stress della vita.
Spesso nell’ipocondria la storia medica viene presentata con dovizie di dettagli e assai estesamente. Sono comuni “l’andare per medici” e il deterioramento della relazione medico-paziente, con frustrazioni e risentimento reciproci.I soggetti ipocondriaci spesso ritengono di non ricevere le cure appropriate, e possono opporsi strenuamente agli inviti a rivolgersi ai servizi psichiatrici. Complicazioni possono derivare dalle ripetute procedure diagnostiche, che possono di per sé comportare dei rischi e che sono costose.
Tuttavia, proprio in quanto questi soggetti hanno una storia di lamentele multiple senza una chiara base fisica, c’è il rischio che ricevano valutazioni superficiali, e che venga trascurata la presenza di una condizione medica generale.
Le relazioni sociali vengono sconvolte per il fatto che il soggetto ipocondriaco è preoccupato della propria condizione e spesso si aspetta considerazione e trattamento speciali.
La vita familiare può diventare disturbata poiché viene focalizzata intorno al benessere fisico del soggetto. Possono non esserci effetti sul funzionamento lavorativo dell’individuo, se questo riesce a limitare l’espressione delle preoccupazioni ipocondriache al di fuori dell’ambiente lavorativo. Spesso la preoccupazione interferisce con le prestazioni e causa assenze dal lavoro. Nei casi più gravi, il soggetto ipocondriaco può divenire un completo invalido.
Malattie gravi, specialmente nell’infanzia, ed esperienze pregresse di malattia di un membro della famiglia sono facilmente associate con il manifestarsi della Ipocondria.
Si ritiene che certi fattori psico-sociali stressanti, in particolare la morte di qualche persona vicina, possano in alcuni casi precipitare l’Ipocondria.
Epidemiologia e possibili cause
Il disturbo risulta equamente distribuito tra maschi e femmine, anche se è stata notata una certa preponderanza nelle donne. E’ sconosciuta la percentuale di diffusione del disturbo nella popolazione generale, ma nella pratica medica generale va dal 4 al 9%.
Può esordire a qualunque età, ma si pensa che l’età più comune di esordio sia la prima età adulta.
Fra le cause principali ritroviamo:
Stabile tendenza dell’individuo ad interpretare erroneamente le informazioni relative a sintomi corporei, le variazioni corporee e ogni altra informazione ritenuta rilevante per la salute, come evidenza del fatto di essere affetti da una grave malattia.
Esperienza di malattia e/o perdita nella propria storia personale e familiare.
Spesso l’evento critico può coincidere con l’insorgenza di sintomi somatici non previsti, con la rilevazione di segni fisici prima ignorati, con l’esposizione a informazioni relative a patologie mediche.
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Cos'è la fobia sociale
La fobia sociale è un disturbo d’ansia caratterizzato dalla paura di essere giudicati negativamente in situazioni sociali o durante lo svolgimento di un’attività. Tipicamente le persone che soffrono di questo disturbo temono di poter dire o fare cose imbarazzanti e di esser giudicati ansiosi, impacciati, stupidi, deboli o “pazzi”.
Questi timori possono essere presenti solo in alcune situazioni sociali (fobia sociale specifica) o nella maggioranza di esse (fobia sociale generalizzata).
Per non provare disagio, chi ha questo disturbo cerca in tutti i modi di evitare le situazioni sociali e, quando è costretto a parteciparvi, si sente imbarazzato, impacciato, affaticato e desideroso di andare via.
Tale disturbo è piuttosto comune: gli studi scientifici indicano che colpisce tra il 3% ed il 5% della popolazione generale, in particolare donne. Poiché chi soffre di fobia sociale difficilmente richiede aiuto agli specialisti perché sottovaluta il suo problema o se ne vergogna, è probabile che tale disturbo sia ancora più diffuso di quanto indicato dalle ricerche.
Generalmente la fobia sociale compare più o meno bruscamente nell’adolescenza, intorno ai 15 anni, dopo un’infanzia caratterizzata da inibizione e timidezza. In seguito tende a mantenersi nel tempo, con variazioni di gravità legate agli eventi di vita.
Come si manifesta la fobia sociale
La persona che soffre di fobia sociale prova una forte e persistente ansia nelle situazioni sociali o quando svolge delle attività in presenza di altre persone (es. guidare la macchina) in quanto teme soprattutto di fare “una brutta figura”.
Chi ha questo disturbo, inoltre, crede di non essere in grado di contenere le proprie emozioni di paura e vergogna, pensa che anche gli altri le noteranno e che, per questo, lo giudicheranno negativamente. Immagina la disapprovazione, la derisione, il rifiuto o la pena degli altri con vero terrore.
Le emozioni problematiche maggiormente presenti nella fobia sociale sono, dunque, l’ansia/paura, l’imbarazzo, la vergogna e il senso di umiliazione.
La paura di essere giudicati negativamente può essere, talvolta, così forte da essere accompagnata da evidenti sintomi d’ansia. I sintomi ansiosi più frequentemente percepiti sono: palpitazioni, tremori alle mani o alle gambe, sudorazione, malessere gastrointestinale, diarrea, tensione muscolare, confusione. Nei casi più gravi, il timore del giudizio negativo può provocare veri e propri attacchi di panico.
Chi ha la fobia sociale in genere sviluppa specifici timori legati all’eventualità che le altre persone si accorgano dei suoi sintomi ansiosi (es. teme che gli altri notino il suo tremore delle mani o della voce) e, dunque, spesso fa pensieri del tipo “Ora apparirò goffo, impacciato…inizierò a tremare e sudare…gli altri se ne accorgeranno e rideranno di me!”.
Ai sintomi ansiosi spesso si associano anche le reazioni tipiche della vergogna: rossore in viso, postura dimessa, desiderio di sfuggire allo sguardo degli altri o di “sprofondare”.
Tipicamente le situazioni più temute da chi soffre di fobia sociale sono: feste, cene, frequentazioni di locali, acquisti nei negozi, riunioni di lavoro, svolgimento di attività quotidiane in presenza di altre persone (es. conversare, mangiare, bere, scrivere, guidare, utilizzare il telefono o il computer). Prima di affrontare un evento temuto, il soggetto può sviluppare ansia anticipatoria immaginando ripetutamente il verificarsi di quell’evento. Le immagini di ciò che si teme possono presentarsi per giorni, aumentando, così, il livello d’ansia.
In alcune occasioni, l’ansia può diventare così intensa da ostacolare realmente il soggetto nello svolgimento dei suoi compiti. Durante una riunione, ad esempio, egli potrebbe essere così tanto in ansia da essere davvero poco chiaro nell’esporre dei concetti. Chi soffre di fobia sociale, dunque, quando ha un livello d’ansia molto elevato, può avere realmente delle prestazioni scadenti. L’avverarsi di ciò che si teme di più, di solito, causa ulteriore imbarazzo, vergogna o senso di umiliazione. Si può instaurare, così, un circolo vizioso che autoalimenta il disturbo, in quanto mantiene nel tempo il timore del giudizio negativo e l’ansia anticipatoria.
Chi ha la fobia sociale, inoltre, può vergognarsi della propria vergogna (metavergogna). Ad esempio, se percepisce di essere diventato rosso in viso, si può vergognare del proprio rossore, cioè si può vergognare di vergognarsi; in questo modo il rossore non potrà che accentuarsi. Il concentrare l’attenzione sull’aspetto somatico dell’emozione, quindi, innesca un circolo vizioso che produce un aumento delle sensazioni che si vuole contenere. Le persone che presentano questa difficoltà, inoltre, tipicamente hanno pensieri del tipo “Adesso diventerò rosso in viso…gli altri se ne accorgeranno e rideranno di me!”. Questi pensieri aumentano l’attenzione selettiva e l’instaurarsi del circolo vizioso. La metavergogna può essere considerata, dunque, un fattore di mantenimento del disturbo, in quanto esaspera il vissuto doloroso della persona, le impedisce di osservare realisticamente cosa accade e la ostacola nel mettere in atto dei comportamenti efficaci.
Questo disturbo è caratterizzato anche da condotte di evitamento, per cui il soggetto evita le situazioni temute. I motivi dell’evitamento possono essere diversi: si può provare un’ansia così intensa da ritenerla ingestibile o si può essere stanchi di affrontare delle situazioni in cui si lotta contro la propria sensazione di inadeguatezza. In alcuni casi gli evitamenti possono portare all’isolamento sociale della persona.
Per tenere sotto controllo l’ansia e l’eventualità di essere giudicati negativamente, si possono mettere in atto anche i cosiddetti comportamenti protettivi. Ad esempio il soggetto può non togliere la giacca in un ambiente caldo per non far vedere che suda, creando, così, le condizioni per sudare ancora di più e sentirsi ancora di più in imbarazzo.
I comportamenti protettivi, come quelli di evitamento, temporaneamente riducono il timore di fare una brutta figura, ma alla lunga peggiorano i sintomi.
Questo quadro non potrà che confermare le previsioni iniziali di fallimento e la valutazione negativa di sé tipici di chi presenta la fobia sociale.
Come capire se si soffre di fobia sociale
L’ansia anticipatoria, l’imbarazzo, la vergogna, il senso di umiliazione, il timore di essere giudicati negativamente e il timore di vergognarsi sono emozioni che possono provare tutti. Nelle persone che hanno la fobia sociale, tuttavia, tali stati emotivi sono così invalidanti che ostacolano il normale svolgimento della vita quotidiana.
Dal momento che alcune caratteristiche della fobia sociale sono presenti anche in altri disturbi psicologici, è opportuno distinguere questa condizione da altre simili. Per ottenere una diagnosi seria ed accurata, tuttavia, è necessario rivolgersi a persone qualificate.
Come accennato, le persone con fobia sociale possono sperimentare degli attacchi di panico prima di affrontare la situazione temuta. Chi ha il disturbo di panico, tuttavia, anche se può cercare di evitare le situazioni sociali per la paura di essere visto durante un attacco d’ansia, presenta attacchi di panico inaspettati, anche in occasioni diverse da quelle di socializzazione. Chi ha un disturbo di panico, inoltre, di solito evita di restare da solo perché avverte la presenza di altre persone come rassicurante; il fobico sociale, invece, ricerca la solitudine perché le situazioni sociali gli provocano disagio.
La fobia sociale può essere confusa anche con il disturbo d’ansia generalizzato. I due disturbi, infatti, hanno in comune la paura di sentirsi imbarazzati o umiliati, ma nel disturbo d’ansia generalizzato tale timore non rappresenta la preoccupazione principale dell’individuo, come invece accade nella fobia sociale. I soggetti con ansia generalizzata, inoltre, si preoccupano per la qualità delle loro prestazioni in modo continuativo, anche quando non vengono giudicati, mentre nella fobia sociale il motivo principale che scatena l’ansia è il giudizio degli altri.
La scarsità di relazioni sociali caratterizza sia la fobia sociale che il disturbo schizoide di personalità. In quest’ultimo, tuttavia, la solitudine è una conseguenza della mancanza d’interesse per le relazioni sociali, mentre nella fobia sociale è una conseguenza degli evitamenti sociali. Il fobico sociale, infatti, prova interesse nei confronti delle altre persone, ha il desiderio di avere dei rapporti sociali e prova angoscia a causa delle sue difficoltà di socializzazione.
La fobia sociale ha diverse caratteristiche in comune anche con il disturbo evitante di personalità. In entrambi i casi la persona presenta evitamento delle situazioni sociali, bassa autostima ed estrema sensibilità ai giudizi negativi. I due disturbi, tuttavia, sembrano differire per il fatto che la persona con disturbo evitante ha un timore pervasivo in tutte le situazioni sociali e relazionali, mentre chi soffre di fobia sociale ha paure più specificamente correlate alla prestazione sociale. Questa distinzione, comunque, non permette di differenziare facilmente il disturbo evitante di personalità e la fobia sociale generalizzata. Secondo alcuni esperti, infatti, queste due diagnosi sarebbero sovrapponibili, in altre parole sarebbe possibile che si stanno utilizzando due differenti categorie diagnostiche per lo stesso disturbo. Altri autori, invece, sostengono che ci sono delle differenze tra queste due patologie. Dai risultati di una ricerca, infatti, risulta che le persone con disturbo evitante di personalità, rispetto a chi ha la fobia sociale generalizzata, presentano una maggiore sensibilità interpersonale e più scarse abilità sociali. Secondo altri autori, inoltre, i due disturbi sarebbero distinguibili in base a ciò che attiva il senso di inadeguatezza e l’ansia: i soggetti con fobia sociale di solito si sentono inadeguati quando devono svolgere delle prestazioni, mentre quelli con disturbo evitante si percepiscono inadeguati soprattutto quando, nel relazionarsi agli altri, avvertono un forte senso di estraneità e di non appartenenza.
Si esclude, infine, la presenza di fobia sociale se l’ansia sociale e l’evitamento si manifestano nel corso di altri disturbi mentali che possono giustificarli (es. depressione) o in concomitanza di preoccupazioni relative ad una condizione medica (es. tremore nel Parkinson, cicatrici).
Cause della fobia sociale
Non esiste una causa unica della fobia sociale: alla base del disturbo vi sarebbero un insieme di fattori, che possono essere di tipo genetico, psicologico ed ambientale.
É stata riscontrata, innanzitutto, una familiarità (fattori genetici) per lo sviluppo della fobia sociale: rispetto al resto della popolazione, sembra che si manifesti con maggior frequenza nei consanguinei di primo grado dei soggetti con fobia sociale.
Un altro fattore di rischio è la presenza di alcune caratteristiche di personalità (fattori psicologici), sul cui sviluppo incidono, ancora una volta, fattori sia genetici, che ambientali ed educativi. Le caratteristiche di personalità più frequentemente riscontrate nelle persone con fobia sociale risultano il perfezionismo, l’ipersensibilità alle critiche, l’ipersensibilità alle valutazioni negative ed al rifiuto, la sensazione di essere deboli, l’importanza attribuita al giudizio altrui, le difficoltà ad essere assertivi, la bassa autostima e la sensazione d’inferiorità.
Tra i fattori di rischio ambientali, infine, figurano esperienze in cui la persona si è sentita umiliata o derisa ed elevati livelli di stress relativi a importanti cambiamenti di vita (es. incarichi di lavoro che richiedono di parlare in pubblico, perdita del partner).
Conseguenze della fobia sociale
Gli individui con questo disturbo possono sperimentare disagio in ambito scolastico o lavorativo, sociale ed affettivo.
Le difficoltà scolastiche sono spesso causate dalla presenza d’ansia da prestazione. I problemi in ambito lavorativo, invece, sono più spesso causati dal timore di parlare in pubblico e dalla tendenza ad evitare impegni in cui la persona potrebbe sentirsi valutata negativamente. Nei casi più gravi queste difficoltà possono causare l’abbandono della scuola o del lavoro, o portare ad uno stato di disoccupazione dovuto all’evitamento dei colloqui di lavoro.
Dal punto di vista sociale e affettivo, i soggetti con questa diagnosi hanno meno probabilità di avere relazioni sociali e sentimentali rispetto alla popolazione generale. Nei casi più gravi la persona si può isolare completamente.
Tali difficoltà possono concorrere, inoltre, allo sviluppo di un disturbo depressivo o all’abuso di sostanze stupefacenti, che vanno a complicare ulteriormente il quadro descritto.
Differenti tipi di trattamento
Negli ultimi anni sono state effettuate diverse ricerche sull’efficacia delle psicoterapie per il trattamento della fobia sociale. Dagli studi emerge che le terapie che risultano efficaci per la cura di questo disturbo sono la terapia comportamentale, il social skill trainings e la terapia cognitivo-comportamentale.
La terapia comportamentale è un trattamento incentrato sulla tecnica dell’ esposizione graduale, che consiste nell’esporre gradatamente il paziente alla situazione temuta affinché possa ridurre l’ansia sociale ed acquisire un senso di efficacia nella gestione delle situazioni sociali.
Il social skill training, o training per le abilità sociali, è un trattamento di gruppo finalizzato allo sviluppo o all’incremento delle competenze sociali (es. capacità di risoluzione dei conflitti) e all’acquisizione di modi personali per affrontare le situazioni interpersonali temute. In un ambiente “protetto”, il paziente può riuscire a modificare la rappresentazione di sé sperimentando rapporti sociali con gli altri membri del gruppo e utilizzando i feed-back sul proprio comportamento.
Chi soffre di fobia sociale può giovarsi anche di un trattamento farmacologico a base di antidepressivi di nuova generazione e benzodiazepine. Questo trattamento riduce in un tempo relativamente breve l’intensità della sintomatologia, ma sembra che lasci inalterate le cause del disturbo, per cui alla sospensione dei farmaci i sintomi potrebbero ripresentarsi. Curare la fobia sociale solo mediante i farmaci potrebbe essere come curare un forte mal di schiena facendo uso esclusivo di antidolorifici: dopo qualche tempo, il dolore potrebbe ripresentarsi perché non si agisce anche su ciò che lo ha provocato.
La farmacoterapia, dunque, è spesso usata per creare le condizioni favorevoli per un intervento psicoterapeutico più efficace. Per tale motivo spesso il clinico propone al paziente un intervento in cui il trattamento farmacologico e quello psicoterapeutico vengono associati.
Il trattamento cognitivo-comportamentale
Dalla ricerca scientifica risulta che la terapia cognitivo-comportamentale è uno dei trattamenti più efficaci per la cura della fobia sociale.
Il protocollo cognitivo-comportamentale per la cura di questo disturbo prevede l’impiego delle seguenti procedure:
- formulazione di un contratto terapeutico, che contenga obiettivi condivisi da paziente e terapeuta e i loro rispettivi compiti (es. compiti a casa per il paziente);
- ricostruzione della storia del disturbo, partendo dal primo episodio in cui si è manifestato, fino alla dettagliata descrizione della manifestazione attuale;
- formulazione dello schema di funzionamento del disturbo, a partire dall’analisi di episodi recenti durante i quali la persona ha provato ansia sociale;
- interventi di tipo psicoeducazionale, con cui vengono fornite informazioni sulla natura dell’ansia e della vergogna e sul loro ruolo nell’insorgenza e nel mantenimento del disturbo;
- individuazione dei pensieri disfunzionali alla base del disturbo e messa in discussione di tali interpretazioni mediante specifiche tecniche (es. esperimenti comportamentali, dialogo socratico);
- apprendimento di tecniche per la gestione dei sintomi dell’ansia (es. tecnica del respiro lento, rilassamento muscolare isometrico e progressivo);
- esposizione graduale ai pensieri ed agli stimoli temuti ed evitati, mediante il ricorso a specifiche tecniche (es. esposizione immaginativa, enterocettiva ed in vivo);
- in fase di conclusione del trattamento, interventi di prevenzione delle ricadute.
Questo protocollo è applicabile sia individualmente, che in gruppo.
La psicoterapia di gruppo, rispetto a quella individuale, ha il vantaggio generico di consentire il confronto con altre persone che soffrono dello stesso disturbo e di favorire, così, il ridimensionamento del problema e la riduzione della sensazione soggettiva di “essere anormale”. Nel caso della fobia sociale, il trattamento in gruppo costituisce di per sé un’esposizione a ciò che il soggetto teme, per cui va attuato a seguito di una preparazione del paziente ad esso.
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Cos'è il disturbo ossessivo-compulsivo
Il disturbo ossessivo-compulsivo (DOC) è uno dei disturbi d’ansia più frequenti ed è generalmente caratterizzato dalla presenza di ossessioni e compulsioni, anche se, in alcuni casi, si possono presentare ossessioni senza compulsioni e viceversa.
Le ossessioni sono pensieri, immagini mentali o impulsi che si manifestano ripetutamente nella mente di una persona e che sono percepiti come sgradevoli ed intrusivi. Questi fenomeni mentali involontari infastidiscono molto le persone che ne soffrono, sia perché sfuggono al loro controllo sia perché provocano delle emozioni negative (es. paura, disgusto, senso di colpa, ecc.), a tal punto che in molti casi si sentono costrette a mettere in atto una serie di comportamenti ripetitivi o di azioni mentali per ridurre lo stato di disagio che li attanaglia (compulsioni). Le ossessioni sono spesso di natura bizzarra e, chi ne soffre è solitamente consapevole della loro infondatezza o esagerazione; tuttavia, in alcuni casi, si può essere così ansiosi da non rendersi neanche conto che si tratta di pensieri che generano preoccupazioni irrazionali o quantomeno eccessive. Il contenuto di questi pensieri, immagini o impulsi può variare; ad esempio, ci sono persone che si preoccupano in modo eccessivo dello sporco e dei germi, altre che sono spaventate dall’idea di perdere il controllo dei propri impulsi aggressivi e fare del male a qualcuno.
Le compulsioni, dette anche rituali o cerimoniali, sono invece dei comportamenti ripetitivi (es. lavarsi le mani, controllare se lo sportello della macchina è stato chiuso, riordinare) o delle azioni mentali (es. contare, pregare, ripetere formule superstiziose), messi in atto per ridurre il senso di disagio e l’ansia provocati dai pensieri ossessivi. A volte il disagio provato è descritto semplicemente come una sgradevole “sensazione che c’è qualcosa che non va” (o “not just right experience”). La compulsione, dunque, riduce l’ansia, produce sollievo e dà un senso di relativa sicurezza, anche se dura poco tempo.
Il disturbo ossessivo-compulsivo colpisce senza distinzioni di età e sesso dal 2% al 3% della popolazione, vale a dire che ogni cento persone che nascono oggi, due o tre svilupperanno nell’arco della propria vita un DOC. Si può supporre che in Italia, in questo momento, soffrano di questa patologia circa 800.000 persone.
Può manifestarsi nell’infanzia, nell’adolescenza o nell’età adulta, in modo acuto, cioè con sintomi evidenti ed improvvisi, o più frequentemente in modo subdolo e graduale.
Come si manifesta il disturbo ossessivo compulsivo
Le ossessioni e compulsioni possono essere di natura molto varia. Si è tentato pertanto di costruire delle sotto-categorie del disturbo ossessivo-compulsivo.
Disturbo ossessivo-compulsivo da contaminazione
Chi ne soffre è tormentato dalla insistente preoccupazione di potersi sporcare o contaminare entrando in contatto con sostanze di vario tipo, quali: escrementi, secrezioni del corpo, sporcizia, sostanze chimiche, siringhe, carne cruda, saponi, solventi, detersivi, ecc.. La contaminazione può essere anche da sporco di natura sociale (es. il tossicodipendente, l’anziano o il barbone) o metafisica (es. il male, il diavolo, le negatività). In molti casi non c’è un vero e proprio timore di malattia, ma un forte disgusto all’idea di entrare in contatto con queste sostanze. La persona, quindi, si sente costretta ad evitare una serie infinita di luoghi: bagni e giardini pubblici, cassonetti dell’immondizia, supermercati, stazioni ferroviarie, ospedali, ecc., tutto ciò al fine di evitare di provare la sensazione di contaminazione. Quando, invece, entra in contatto, o semplicemente pensa di essere entrato in contatto, con una delle sostanze contaminanti mette in atto una serie di rituali di lavaggio, pulizia e sterilizzazione ripetuti e particolareggiati (compulsioni) al fine di attutire la sensazione di contaminazione ed il disagio ad essa connesso. Tali rituali possono durare pochi minuti o arrivare ad occupare molte ore all’interno della giornata.
Disturbo ossessivo-compulsivo da controllo
Si tratta di ossessioni e compulsioni che implicano controlli prolungati allo scopo di prevenire gravi incidenti o catastrofi o di assicurarsi che non siano avvenute. Le persone con questa tipologia di disturbo ossessivo-compulsivo tendono a mettere in atto rituali di controllo per tranquillizzarsi rispetto al dubbio di aver fatto o non aver fatto qualcosa che può aver danneggiato se stesso, i propri oggetti o qualcun’altro o che potrebbe farlo. In questo caso, quindi, il timore che le compulsioni cercano di neutralizzare è il senso di colpa, cioè questi soggetti hanno paura di sentirsi in colpa o per aver commesso qualcosa (colpa da responsabilità) o per non aver fatto il possibile per evitare che accadessero eventi negativi (colpa da omissione). Queste persone attuano così ripetuti controlli per essere sicuri di aver chiuso bene il rubinetto del gas, le porte, le finestre, i fornelli elettrici, l’interruttore della luce, la cassetta della posta, i fari della macchina, di non aver investito involontariamente qualcuno, di non avere tracce di sangue addosso, ecc.. Questo tipo di rituali coinvolge spesso i familiari che sono oggetto di ripetute richieste di rassicurazione o ai quali viene chiesto di fare i controlli al posto della persona stessa.
Disturbo ossessivo-compulsivo di tipo superstizioso
Chi ne soffre pensa che il fatto di compiere o meno determinati gesti, pronunciare certi numeri, compiere certe azioni un certo numero di volte, vedere certi colori o certe cose (es. carri funebri, cimiteri, manifesti mortuari), determini l’esito degli eventi. Questo è il caso di chi, quando sente determinati suoni considerati negativi (es. la sirena dell’autoambulanza) o certe parole pronunciate o scritte (morte, diavolo, satana, ecc.), mentre compie una determinata azione, deve ripeterla un certo numero di volte affinché questo rituale neutralizzi le negatività associate a quel suono o quella parola. Chi presenta questo tipo di ossessioni, dunque, vive degli intensi stati di paura o terrore nei confronti di ciò che potrebbe accadere ed è spesso allarmato dall’idea che possano succedere degli eventi negativi a se stesso o alla propria famiglia.
Disturbo ossessivo-compulsivo da ordine e simmetria
Ci sono delle persone che non tollerano assolutamente che gli oggetti siano posti in modo disordinato o asimmetrico, perché ciò crea in loro la sgradevole sensazione “che c’è qualcosa che non va”. In seguito a questo tipo di ossessioni si possono passare delle ore a fare compulsioni di ordine e simmetria, cioè a riordinare ed allineare secondo una sequenza logica (es. secondo la grandezza o il colore) penne, libri, fogli, pentole, cd, abiti, ecc.. Tali pensieri ossessivi possono riguardare anche la propria persona, come, ad esempio la posizione dell’orologio, il modo in cui sono sistemate maglie e pettinatura dei capelli; ne conseguono rituali di controllo e di messa in ordine allo specchio che possono durare anche ore.
Disturbo ossessivo-compulsivo da accumulo/accaparramento
E’ un tipo di ossessione caratterizzata dall’impulso ad accumulare oggetti insignificanti ed inservibili (riviste, giornali vecchi, bottiglie vuote, confezioni di alimenti, pacchetti di sigarette, ecc.), che provoca delle compulsioni di accumulo e raccolta di questi oggetti; ci sono persone che arrivano persino a raccogliere lattine vuote e pacchetti di sigaretta per strada, o dai bidoni della spazzatura, pensando che un giorno possano servire a qualcosa. A volte, lo spazio occupato da tali “collezioni” diventa tale da sacrificare la vita delle persone e dei suoi familiari. Coloro che presentano questo tipo di DOC si sentono spesso orgogliose delle loro bizzarre “collezioni” e sono spaventate all’idea di buttare via qualcosa.
Ossessioni pure
Ci sono delle persone affette da disturbo ossessivo-compulsivo, infine, che presentano solo ossessioni senza compulsioni. Essi sono spaventati da pensieri o spesso immagini relative a scene in cui la persona attua comportamenti indesiderati, privi di senso, sconvenienti o pericolosi. Le ossessioni pure possono essere a contenuto aggressivo, religioso, sociale o sessuale. Tra queste troviamo: il timore di fare del male a se stesso o agli altri (es. ci sono persone che hanno paura di usare un coltello o la forchetta, di maneggiare oggetti appuntiti, di passare vicino alle finestre, di avvelenare il cibo di altre persone, di fare del male ai dei bambini piccoli o di ferire i sentimenti degli altri), la presenza di immagini violente o terrificanti (es. visioni di omicidio, corpi fatti a pezzi), il timore di pronunciare frasi oscene o insulti, bestemmiare, compiere atti sacrileghi o fare cose imbarazzanti e la paura di essere responsabile di eventi terribili come incendi o furti. Le persone che hanno ossessioni di tipo sessuale, invece, presentano il dubbio o il terrore di poter essere perversi, pedofili o omosessuali. Questi pazienti possono passare anche delle ore a rimuginare su questi pensieri, con estenuati messe alla prova e ripetute domande sulla propria natura sessuale.
Come capire se si soffre di disturbo ossessivo-compulsivo
Di solito usiamo il termine ossessione per indicare un pensiero che si presenta con una certa insistenza nella nostra mente; c’è però una differenza tra il significato colloquiale del termine e quello clinico. E’ assolutamente normale, infatti, in certe situazioni, avere per la testa dei pensieri che ci tormentano. E’ naturale essere preoccupati se un nostro parente è ammalato, se dobbiamo fare un esame o se dobbiamo pagare la rata del mutuo. Le ossessioni si differenziano, dunque, dalle normali preoccupazioni per il loro contenuto, queste ultime sono infatti delle paure fondate e legate a problemi reali della vita quotidiana.
La ricerca scientifica ha dimostrato, inoltre, che dei pensieri intrusivi indesiderati irrazionali, assurdi o sproporzionati rispetto alla realtà passano occasionalmente nella testa di ogni persona. Può capitare a tutti, infatti, di provare il timore di perdere il controllo della macchina o la paura di non aver chiuso bene la porta di casa, pur essendo consapevoli della esagerazione di queste preoccupazioni. Fino a qualche anno fa si pensava, invece, che le persone colpite da disturbo ossessivo-compulsivo fossero particolari e bizzarre e che le persone “normali” non avessero questo tipo di pensieri. Le differenze tra i normali pensieri intrusivi indesiderati e le ossessioni patologiche sono, dunque, soltanto di ordine quantitativo e ricorsivo, non di contenuto. Le ossessioni patologiche, infatti, presentano una maggior frequenza, creano reazioni emozionali più intense e maggiore disagio, sono più difficilmente gestibili e durano per tempi più lunghi. E’ necessario pertanto ipotizzare la presenza di un disturbo ossessivo-compulsivo solo quando i sintomi persistono, creano molta ansia e molto disagio o interferiscono pesantemente con la vita di tutti i giorni.
Tra le varie ossessioni possiamo trovare anche la paura di avere contratto una malattia, tale timore tuttavia caratterizza non solo il disturbo ossessivo-compulsivo, ma anche l’ ipocondria. E’ bene ricordare che nel DOC questo pensiero è legato all’idea di contaminazione e la modalità di contagio della malattia è spesso bizzarra. Inoltre chi soffre di ipocondria è convinto o teme già di avere una malattia, per questo attua comportamenti ripetitivi di richiesta di rassicurazione, quali visite mediche, analisi cliniche, ecc., mentre una persona con le ossessioni è più spesso preoccupato di poterla contrarre.
Il DOC, infine, potrebbe essere confuso con il disturbo ossessivo-compulsivo di personalità. Sebbene abbiano il nome simile e qualche aspetto in comune, come ad esempio una certa rigidità morale ed un eccessivo senso di responsabilità, le due patologie sono marcatamente diverse. Questo ultimo, infatti, è caratterizzato da dei tratti caratteriali ben precisi e le persone che ne soffrono non presentano pensieri intrusivi ricorrenti, né compulsioni di alcun genere. In alcuni casi, tuttavia, possono essere presenti entrambi i disturbi; altre volte, invece, il DOC può essere associato ad altri disturbi di personalità.
Cause del disturbo ossessivo compulsivo
Sfortunatamente gli studi scientifici non hanno dedicato molta attenzione alla comprensione delle cause del disturbo ossessivo-compulsivo. Si pensa, tuttavia, che alcuni fattori individuali possano concorrere all’aumento dei pensieri intrusivi indesiderati, quindi allo sviluppo di ossessioni e compulsioni.
Tra i fattori individuali vi sono lo stress e l’umore disforico (uno stato misto di rabbia e tristezza). La ricerca mette in evidenza, infatti, come le persone presentino più frequentemente dei pensieri intrusivi in situazioni di forte stress ed abbiano più difficoltà ad ignorare e gestire la presenza di pensieri indesiderati quando sono tristi.
Si ipotizza, inoltre, che ci siano anche delle caratteristiche di personalità che possano predisporre allo sviluppo di pensieri intrusivi indesiderati; tra queste vi sono: l’alta sensibilità alla minaccia o al pericolo, l’alta frequenza di emozioni negative, la coscienziosità, l’elevato senso di responsabilità, la rigidità morale e la timidezza.
Conseguenze del disturbo ossessivo compulsivo
Chi soffre di un disturbo ossessivo-compulsivo è spesso così spaventato e stremato dai continui rituali legati alle ossessioni che cerca di evitare tutta una serie di situazioni, poiché teme che possano innescare questo tipo di pensieri. Gli evitamenti, a lungo andare, possono causare una serie di limitazioni sia nella vita sociale che lavorativa.
Nei casi più gravi, le persone possono passare talmente tante ore al giorno a fare dei rituali che non riescono più a svolgere alcuna attività lavorativa o la realizzano in modo discontinuo. Altre volte, invece, debbono accontentarsi di mansioni a bassa responsabilità.
Questo disturbo, inoltre, si riflette negativamente anche sulla qualità e la durata delle relazioni di amicizia ed affettive; il 50 % dei pazienti, infatti, non riesce a stabilizzare o a mantenere un rapporto con un partner.
Tale disturbo ha, infine, una naturale tendenza alla cronicizzazione; ne consegue che se non è trattato in modo adeguato può influire pesantemente su tutto l’arco della vita del soggetto.
Differenti tipi di trattamento
Attualmente, in base a degli studi scientifici, gli unici trattamenti che sono risultati efficaci per la cura del disturbo ossessivo-compulsivo sono il trattamento farmacologico e la psicoterapia cognitivo-comportamentale.
Per quanto riguarda il trattamento farmacologico, molte ricerche documentano l’effetto dei farmaci antidepressivi SSRI (o inibitori selettivi della ricaptazione della serotonina) e della clomipramina (antidepressivo triciclico). Gli studi sottolineano la sostanziale equivalenza terapeutica della clomipramina e degli SSRI nel trattamento del DOC, sebbene la pratica clinica mostri la superiorità della clomipramina, soprattutto se somministrata per via endovenosa.
Nonostante l’efficacia comprovata di questi farmaci è emerso, tuttavia, che circa il 30-40% delle persone non risponde positivamente a questo tipo di trattamento. Anche tra coloro che presentano dei miglioramenti sono poche le persone che riescono a non avere più sintomi con il solo trattamento farmacologico. Per questo motivo, sono state proposte numerose strategie farmacologiche, basate sull’utilizzo di basse dosi di neurolettici o la combinazione di due farmaci ad azione serotoninergica, che mirano a potenziare l’efficacia della terapia con i soli antidepressivi. Sono sconsigliate, invece, le benzodiazepine, cioè i cosiddetti tranquillanti, perché anche se danno una momentanea attenuazione dell’ansia creano assuefazione e dipendenza.
In conclusione, i farmaci da soli possono risultare non del tutto efficaci e, anche nel migliore dei casi, presentano un forte rischio di ricaduta.
Quando né la terapia cognitivo-comportamentale né il trattamento farmacologico hanno dato risultati soddisfacenti, si dice che la persona presenta un disturbo ossessivo-compulsivo resistente al trattamento; in questi casi può essere utile un ricovero in strutture specializzate. Un trattamento ben organizzato in regime di ricovero deve presentare le seguenti caratteristiche:
- trattamento farmacologico intensivo secondo i più recenti protocolli d’intervento sul DOC resistente;
- sedute intensive di psicoterapia cognitivo-comportamentale (almeno due a settimana);
- quotidiano intervento di esposizione e prevenzione della risposta;
- intervento educativo sui familiari del paziente;
- intervento di prevenzione della ricaduta;
- incontri periodici di controllo dopo la dimissione.
Il ricovero può essere consigliabile anche per chi presenta dei sintomi così gravi da impedire lo svolgimento delle normali attività di vita quotidiana, per chi è a rischio di suicidio, per chi ha scatti aggressivi quando si interviene per fargli interrompere dei rituali, per chi ha situazioni familiari particolarmente complesse o per chi ha un così forte timore di danneggiare gli altri che accetta cure sole se si sente rassicurato dalla presenza dei clinici.
Il trattamento cognitivo-comportamentale
La psicoterapia cognitivo-comportamentale costituisce il trattamento psicoterapeutico più indicato per bambini, adolescenti e adulti che soffrono di DOC. Come ogni trattamento di tipo cognitivo-comportamentale si avvale di tecniche cognitive e di tecniche comportamentali.
Le tecniche cognitive servono per stimolare nel paziente il riconoscimento e la regolazione di certi meccanismi mentali che sono alla base del disturbo.
La storia di apprendimento del disturbo sarà raccolta in diverse fasi del trattamento per favorire la comprensione della propria sofferenza. In questo modo è possibile ridimensionare la sensazione di anormalità che solitamente queste persone provano; certi comportamenti, infatti, possono apparire agli occhi del paziente stesso come una follia incomprensibile e spaventosa.
Gli interventi di tipo cognitivo, inoltre, agiscono su quei processi di pensiero che sono responsabili del mantenimento del disturbo, tra cui: i tentativi di controllo del pensiero, tipici degli ossessivi, l’incapacità di tollerare il rischio, il timore esagerato di essere responsabili o colpevoli di eventuali catastrofi a causa di disattenzioni o errori. In questo modo, chi soffre di questa patologia impara a dare il giusto peso ai pensieri negativi. Quasi tutte le persone ossessive ritengono, infatti, che avere certi pensieri negativi sia di per se pericoloso o moralmente deplorevole aumentando così il timore di averli.
La terapia cognitiva serve, inoltre, a far capire al paziente le ragioni (intervento psico-educazionale e motivazionale) per cui dovrebbe fare ciò che tutti i familiari gli chiedono e che non riesce a fare, cioè imparare ad accettare le sensazioni spiacevoli generate dall’ansia e a impegnarsi gradatamente a non mettere in atto gli evitamenti e i rituali.
La tecnica più indicata per la cura del disturbo ossessivo-compulsivo è, infatti, l’esposizione con prevenzione della risposta (o exposure and response-prevention – E/RP), che costituisce la parte comportamentale del trattamento. Essa consiste nell’esporre gradatamente il paziente al pensiero, immagine o evento temuto e nel fare in modo che resista all’impulso di compiere il cerimoniale. La procedura E/RP generalmente è accompagnata dall’utilizzo del modeling; il terapeuta, cioè, mostra alla persona con disturbo ossessivo-compulsivo il comportamento da eseguire. Ad esempio, il terapeuta tocca un oggetto temuto, come la base di una borsa o le scarpe, si passa le mani sui capelli o sui vestiti e chiede al paziente di ripetere tali azioni. Il terapeuta non forzerà nessun esercizio che non sia stato prima concordato.
Il soggetto si renderà conto, così, che l’ansia si placa anche senza eseguire i rituali, solo più lentamente. I comportamenti di neutralizzazione sono, infatti, il risultato di una storia di apprendimento sfortunata e si possono disimparare e sostituire con altri comportamenti. Questo cambierà gradualmente la valutazione del pericolo e attenuerà l’ansia.
La prima regola del trattamento è quindi quella di “evitare di evitare”, questo principio e alla base degli esercizio di esposizione graduata e di prevenzione della risposta.
Sarà necessario, inoltre, interrompere gradualmente qualunque forma richiesta di rassicurazione imparando a gestire la momentanea ansia associata ai pensieri ossessivi.
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Cos'è il disturbo d'ansia generalizzato
Il disturbo d’ansia generalizzato è un disturbo d’ansia caratterizzato da uno stato di preoccupazione per diversi eventi, che risulta eccessivo in intensità, durata o frequenza rispetto all’impatto o alla probabilità reali degli eventi temuti dal soggetto. Tale stato, inoltre, non risulta associato a specifiche circostanze, è difficile da controllare per chi lo sperimenta ed è presente nel soggetto per la maggior parte del tempo per almeno sei mesi.
Le preoccupazioni eccessive sono accompagnate da almeno tre dei seguenti sintomi:
- irrequietezza;
- facile affaticabilità;
- difficoltà a concentrarsi o vuoti di memoria;
- irritabilità;
- sonno disturbato;
- tensione muscolare.
Coloro che sentono tensione muscolare possono sperimentare anche tremori, dolori o contratture muscolari. Molte persone che soffrono di questo disturbo presentano, inoltre, sintomi somatici come bocca asciutta, mani appiccicose, sudorazione, brividi dl freddo, nausea, diarrea, difficoltà a deglutire e nodo alla gola.
Tipicamente il disturbo d’ansia generalizzato ha un andamento cronico, per cui le persone che ne soffrono tendono a considerare lo stato ansioso che solitamente sperimentano come una caratteristica della loro personalità, piuttosto che un disturbo vero e proprio. In alcuni casi, tuttavia, il disturbo si presenta in maniera discontinua nel corso della vita, in particolare nei periodi di forte stress.
Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità soffre di disturbo d’ansia generalizzato il 5% della popolazione mondiale, soprattutto donne. Solo un terzo di chi ne soffre, tuttavia, si rivolge ad uno specialista della salute mentale, in quanto i sintomi fisici dell’ansia spesso portano i pazienti a rivolgersi ad altre figure professionali (es. medico di base, internista, cardiologo, pneumologo, gastroenterologo).
Come si manifesta il disturbo d'ansia generalizzato
La persona che ha un disturbo d'ansia generalizzato vive come se si aspettasse una catastrofe da un momento all’altro, in uno stato di preoccupazione quasi costante. Studi recenti hanno dimostrato che chi ha questo disturbo può trascorrere fino a metà della giornata preoccupandosi di eventi che potrebbero accadere.
La maggior parte delle preoccupazioni eccessive sono relative a circostanze quotidiane, come responsabilità lavorative, problemi economici, salute propria e dei familiari, incidenti a persone significative, piccole attività (es. faccende domestiche, far tardi agli appuntamenti). Chi soffre di disturbo d’ansia generalizzato può svegliarsi durante la notte con la preoccupazione di non riuscire a risolvere un problema economico o di non essere all’altezza del lavoro che deve svolgere o agitarsi eccessivamente nell’attendere un amico in ritardo perché immagina che abbia avuto un incidente.
Gli eventi di cui la persona si preoccupa eccessivamente possono cambiare anche frequentemente.
Alcune delle persone che hanno questo disturbo riconoscono che le loro preoccupazioni sono eccessive, soprattutto dopo che l’evento temuto non si è verificato; altre ritengono che i loro timori siano realistici. In entrambi i casi, comunque, si sperimenta un disagio soggettivo dovuto alla preoccupazione costante.
A partire da una preoccupazione e dalla relativa ansia, infatti, si attivano catene di pensieri negativi dette rimuginazioni, che mantengono e incrementano lo stato iniziale. Le rimuginazioni nascono come tentativi di risoluzione dei problemi, ma si rivelano fallimentari.
Per attenuare le preoccupazioni costanti, chi ha il disturbo d’ansia generalizzato può tentare di attuare comportamenti di questo tipo:
- distrazione e controllo del pensiero, al fine di sopprimere le preoccupazioni (es. tenersi impegnati per distrarsi da pensieri preoccupanti);
- evitamenti, al fine di evitare le situazioni in cui teme possa preoccuparsi (es. evitare di leggere i giornali o di seguire i notiziari per non venire a conoscenza di notizie potenzialmente preoccupanti; rinviare alcune attività per il timore di risultati non soddisfacenti);
- richiesta di rassicurazioni, al fine di interrompere le rimuginazioni (es. chiedere rassicurazioni agli altri sul fatto che le cose andranno bene).
Questi comportamenti, pur contribuendo momentaneamente alla riduzione delle preoccupazioni e dell’ansia, a lungo andare mantengono e rinforzano il disturbo d’ansia generalizzato. Nella ricerca di rassicurazioni, ad esempio, la persona potrebbe ottenere risposte contrastanti dai vari interlocutori, con un aumento, piuttosto che una diminuzione, delle preoccupazioni.
Come capire se si soffre di disturbo d’ansia generalizzato
E’ importante distinguere le normali ansie e preoccupazioni da quelle che caratterizzano il disturbo d’ansia generalizzato.
L’ansia è un’emozione normale, che prova ogni soggetto sano. Ha la funzione di segnalare situazioni di pericolo o spiacevoli, permettendoci così di affrontarle ricorrendo alle risorse mentali e fisiche più adeguate. L’ansia, inoltre, produce un aumento dello stato di vigilanza, utile quando si devono affrontare situazioni impegnative (es. ad un colloquio di lavoro non daremmo il meglio di noi stessi se fossimo completamente rilassati). Entro certi livelli, dunque, l’ansia è necessaria a ciascuno di noi; quando si è troppo ansiosi, però, diminuisce la capacità di pensare lucidamente e di risolvere i problemi.
Rispetto alle preoccupazioni normali, quelle che caratterizzano il disturbo d’ansia generalizzato risultano:
- più numerose, frequenti, durature, intense, invasive e pervasive;
- di rapida successione (ad una ne segue subito, o quasi, un’altra);
- accompagnate da emozioni di ansia intensa;
- relative ad eventi futuri improbabili;
- scollegate da fattori precipitanti;
- accompagnate da sintomi fisici;
- difficili da controllare e da rimandare ad altri momenti.
La presenza di crisi d’ansia o dei sintomi descritti in precedenza (es. tensione muscolare, irrequietezza, irritabilità) non è necessariamente indice di un disturbo d’ansia generalizzato. Tali sintomi, infatti, potrebbero essere la manifestazione di una condizione medica generale (es. ipertiroidismo) o potrebbero essere dovuti all’uso di alcune sostanze psicoattive (es. caffeina, farmaci come sedativi, ipnotici o ansiolitici).
Si può, invece, diagnosticare un disturbo d’ansia generalizzato quando la preoccupazione della persona non è limitata alla possibilità di avere un attacco di panico (come nel disturbo di panico), di sentirsi imbarazzato in pubblico (come nella fobia sociale), di avere una grave malattia (come nell’ ipocondria), di aumentare di peso (come nei disturbi dell'alimentazione), di essere contaminato (come nel disturbo ossessivo-compulsivo) o di rivivere un evento traumatico (come nel disturbo post-traumatico da stress).
Cause
L’esordio del disturbo d’ansia generalizzato è graduale e compreso tra l’adolescenza e i 30 anni di età. Le persone che hanno questo disturbo, comunque, riferiscono di sentirsi molto ansiosi fin dall’infanzia.
In base ad alcuni studi empirici, i fattori di rischio per l’insorgenza di questo disturbo sembrano essere:
- caratteristiche di personalità (intesa come modo abituale di pensare, reagire e rapportarsi agli altri), sul cui sviluppo incidono sia fattori genetici, che educativi;
- uno stile di pensiero in base al quale gli eventi tendono ad essere interpretati in modo minaccioso (es. sentendo il telefono squillare, immaginare cattive notizie, piuttosto che una piacevole chiacchierata);
- stress associati ad eventi che comportano cambiamenti di vita importanti (es. lutti, cambio di lavoro, di casa o di partner).
Conseguenze
Chi ha un disturbo d’ansia generalizzato ha difficoltà ad impedire che le preoccupazioni interferiscano con l’attenzione verso le attività che sta svolgendo; ciò comporta una compromissione del funzionamento lavorativo (es. rallentamento nello svolgimento dei compiti) e sociale (es. tensioni causate dalle frequenti richieste di rassicurazioni) di queste persone.
La presenza di eccessive preoccupazioni e la difficoltà a gestirle possono produrre, inoltre, una diminuzione del senso di efficacia personale e della stima di sé, che spesso conducono ad una depressione secondaria.
Altra frequente conseguenza del disturbo d’ansia generalizzato è l’abuso di sostanze psicoattive (es. farmaci, droghe), a cui la persona può ricorrere come tentativo disperato di gestire il disturbo stesso o la depressione che ad esso può seguire.
Differenti tipi di trattamento
I trattamenti riconosciuti come più efficaci per la cura del disturbo d’ansia generalizzato sono la farmacoterapia e la psicoterapia.
Nella terapia farmacologica vengono utilizzati antidepressivi di nuova generazione e benzodiazepine. A breve termine questi farmaci risultano efficaci, ma all’interruzione della loro assunzione, è possibile che i sintomi del disturbo si ripresentino in quanto le sue cause possono restare inalterate. Curare questo disturbo coi soli farmaci potrebbe essere come curare un forte mal di schiena facendo uso esclusivo di antidolorifici: dopo qualche tempo è possibile che il dolore si ripresenti poiché non si è agito su ciò che lo ha provocato.
D’altra parte i farmaci, abbassando i livelli di sofferenza soggettiva e di ansia, creano le condizioni favorevoli per un intervento psicoterapeutico efficace.
Per tali motivi, spesso i clinici associano al trattamento farmacologico quello psicoterapeutico.
Riguardo alla psicoterapia, da alcuni studi empirici risulta che nella cura del disturbo d’ansia generalizzato il trattamento cognitivo-comportamentale, effettuato sia individualmente che in gruppo, è più efficace di altri trattamenti (es. psicoterapia analitica).
Il trattamento cognitivo-comportamentale
Secondo la teoria cognitivo-comportamentale, le preoccupazioni e le rimuginazioni possono essere normali o patologiche a seconda non dei loro contenuti, ma della loro frequenza e di come vengono valutate dalla persona.
Il disturbo d’ansia generalizzato deriverebbe da peculiari valutazioni sia positive che negative delle proprie preoccupazioni e rimuginazioni.
Generalmente, infatti, chi ha questo disturbo inizialmente presenta credenze positive sulle proprie preoccupazioni: pensa che è proprio il preoccuparsi che gli permette di riflettere e, dunque, di trovare soluzioni ai propri problemi o di prevenire catastrofi (es. “Se rimugino sono più preparato per affrontare ogni evenienza”). Le rimuginazioni, inoltre, vengono spesso associate alla convinzione superstiziosa che “preoccupandosi si tiene lontano il pericolo”. Così, ad esempio, una madre potrebbe temere che, smettendo di preoccuparsi per la salute del figlio, questi potrebbe ammalarsi davvero. Nelle fasi iniziali, dunque, la preoccupazione è deliberatamente ricercata dalla persona.
In seguito, soprattutto a causa del fatto che nel frattempo le rimuginazioni sono diventate pervasive, spesso la persona inizia a valutare negativamente le proprie preoccupazioni: pensa di non riuscire a controllarle e che questo potrebbe essere pericoloso, per cui “si preoccupa di essere preoccupata” (metapreoccupazione) (es. “Starò male o impazzirò se continuo a preoccuparmi così”). In tal caso, le preoccupazioni sono vissute come intrusive, disturbanti e difficili da interrompere.
I comportamenti messi in atto, poi, per attenuare preoccupazioni e ansia (distrazione, controllo del pensiero, evitamenti, richiesta di rassicurazioni) momentaneamente le riducono, ma a lungo andare le mantengono e rinforzano perché lasciano inalterate le credenze disfunzionali su di esse.
Le convinzioni positive e negative sulla rimuginazione e i comportamenti disfunzionali per ridurla interagiscono tra di loro generando un circolo vizioso; in questo modo il disturbo si mantiene.
Nel trattamento cognitivo-comportamentale del disturbo d’ansia generalizzato viene utilizzato un protocollo che prevede l’impiego delle seguenti procedure:
- ricostruzione della storia del disturbo (primi episodi in cui si è manifestato e descrizione dettagliata della condizione attuale);
- formulazione dello schema di funzionamento del disturbo, a partire dall’analisi di recenti episodi nei quali la persona si è sentita preoccupata e ansiosa;
- formulazione di un contratto terapeutico, che contenga, in particolare, obiettivi condivisi da paziente e terapeuta e i loro rispettivi compiti (es. compiti a casa per il paziente);
- psicoeducazione, che consiste nel fornire al paziente informazioni relative al ruolo che hanno le credenze sulle preoccupazioni nell’insorgenza e nelmantenimento del disturbo;
- individuazione dei pensieri disfunzionali (es. giudizi sulle preoccupazioni) alla base del disturbo e messa in discussione di tali valutazioni;
- apprendimento di tecniche per la gestione dei sintomi dell’ansia;
- esposizione graduale ai pensieri ed agli stimoli temuti ed evitati;
- prevenzione delle ricadute, che consiste nell’accettazione da parte del paziente della possibilità che i sintomi potrebbero ripresentarsi e nel rinnovato ricorso agli strumenti acquisiti in terapia per fronteggiare il momento di crisi.
Questo protocollo è applicabile sia alla terapia individuale, che a quella di gruppo.
Rispetto alla terapia individuale, quella di gruppo consente ad ogni partecipante di confrontarsi con altre persone che soffrono del suo stesso disturbo, favorendo il ridimensionamento del problema e la riduzione della sensazione soggettiva di “essere anormale”.